La Cassazione chiarisce le conseguenze della tardiva registrazione del contratto di locazione – un commento alla sentenza della Cassazione Civile, sez. III, 28/04/2017 n. 10498

 

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In tema di locazione di immobile ad uso non abitativo, la Suprema Corte ha statuito che LA REGISTRAZIONE DEL CONTRATTO OPERA NON COME REQUISITO DI VALIDITA’ DELLO STESSO MA COME CONDICIO IURIS DI EFFICACIA, CON LA CONSEGUENZA CHE LA STESSA PUO’ INTERVENIRE ANCHE IN UN MOMENTO SUCCESSIVO ALLA CONCLUSIONE DEL NEGOZIO, CON EFFICACIA EX TUNC, in applicazione dell’art. 1360 comma 1 c.c..

IL CASO

La società Alfa concedeva in locazione un immobile ad uso diverso di abitazione per la durata di due anni alla società Beta la quale, successivamente, esercitava il diritto di recesso prima della    scadenza pattuita.

La società locatrice citava, pertanto, in giudizio la conduttrice per fare accertare l’illegittimità del recesso anticipato con conseguente condanna al pagamento delle mensilità rimanenti come da contratto; per contro, la conduttrice si costituiva chiedendo il rigetto delle domande attoree, nonché la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno.

Il tribunale di Rimini, accertata la registrazione del contratto di locazione, se pur avvenuta tardivamente e nel corso del giudizio, ha ritenuto che il recesso in oggetto fosse privo dei requisiti richiesti dall’art. 27 L. 392/78, condannando la conduttrice al pagamento dei canoni dovuti sino alla scadenza contrattuale.

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DIVORZIO: come cambiano i parametri dell’assegno a seguito della sentenza della Cassazione n. 11504/2017

La Corte di cassazione (Sez. I), con la sentenza n. 11504/2017 ha modificato il proprio orientamento in tema di assegno di divorzio, che era immutato dal 1990.  A seguito di tale sentenza, l’assegno non sarà più parametrato al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, ma dovrà semplicemente garantire l’indipendenza economica dell’ex coniuge.

Paradossalmente la Cassazione, nel compiere tale “rivoluzione giurisprudenziale”, muove da elementi normativi ben consolidati. Essa, infatti, con un’interpretazione perfettamente letterale, specifica il significato dell’art. 5, comma 6, L. 898/1970, ribadendo che l’esame per la concessione dell’assegno di IRRYAQ2F6136-1633-kHl-U11002705450803wq-1024x576@LaStampa.itdivorzio deve svilupparsi in due fasi, da tenere ben distinte: 1) una prima fase dell’eventuale riconoscimento del diritto (fase dell’an debeatur) e 2) una seconda fase di determinazione dell’importo (fase del quantum debeatur).

Con riferimento alla prima fase, gli unici elementi da prendere in considerazione saranno esclusivamente il fatto che il coniuge richiedente l’assegno sia, o meno, dotato di “mezzi propri” o sia, o meno, in una condizione di impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”. Solo a seguito di tale valutazione, si dovrà determinare il quantum dell’assegno, secondo i criteri indicati nel comma 6 dell’art. 5.

La questione sta ora nell’individuare il parametro a cui rapportare i predetti elementi della disponibilità o meno di mezzi propri e della possibilità o meno di procurarseli.

Se, fino ad oggi, il parametro era quello del tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio, con la sentenza in commento il giudice di legittimità lo individua, invece, nell’indipendenza economica del coniuge richiedente l’assegno, evidenziando così la doverosità e la funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile, che trova fondamento negli artt. 2 e 23 Cost.

Il Supremo Collegio rinviene il parametro dell’indipendenza economica, anzitutto, tramite un’analogia iuris con l’art. 337-septies, comma 1, c.c, secondo cui al figlio maggiorenne l’assegno spetta solo se non indipendente economicamente.

La Corte cita, inoltre, il fondamentale principio dell’“autoresponsabilità dei coniugi poiché il divorzio, così come la separazione personale, è una libera scelta dell’individuo con cui lo stesso sviluppa ed eleva la propria personalità e non può certo costituire un mezzo per un futuro arricchimento personale. Tale principio di autoresponsabilità – nota la Corte – è comune al contesto giuridico europeo, dove è anzi rafforzato dalla diffusione, soprattutto nella Gran Bretagna di common law, dei cd. “patti prematrimoniali”.

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Il Collegio, dunque, individua i principali “indici” in base a cui valutare l’”’indipendenza economica”:

1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

L’aspetto più interessante di questa sentenza riguarda, però, i possibili (e probabili) futuri ricorsi che diversi ex coniugi (di entrambi i sessi) presenteranno per vedersi ridotto l’importo dell’assegno di divorzio, in conformità al dictum della Cassazione. A tal riguardo, occorre però tener presente che, nel caso di specie, la Corte non ha pronunciato a Sezioni Unite, ma ha semplicemente corretto la motivazione della precedente Corte d’Appello di Milano, ex art. 384 c.p.c., e che, certamente, vi saranno giudici che si discosteranno da tale nuovo principio di diritto.

Riforma della responsabilità medica: un commento alla c.d. “Legge Gelli”

Il 28 febbraio la Camera ha approvato in via definitiva la Legge 8 marzo 2017, n. 24, la cd. “legge Gelli”, che reca “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”.

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La legge, che ha visto la luce dopo tre anni di articolato lavoro parlamentare, interviene in ambito civile, penale ed amministrativo e tenta di correggere alcune delle storture create dal cd. decreto Balduzzi del 2012, pure all’epoca accolto assai favorevolmente.

Anzitutto l’azione civile di risarcimento danni da responsabilità sanitaria deve essere preceduta, quale condizione di procedibilità, dal ricorso per consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all’art. 696 bis c.p.c. o, in alternativa, dal procedimento di mediazione. Tali tentativi di conciliazione, di durata massima, rispettivamente, di sei e tre mesi, hanno evidentemente la funzione di alleggerire il contenzioso in materia sanitaria gravante sui tribunali italiani, cresciuto negli ultimi anni in maniera esponenziale e preoccupante.

Per le strutture sanitarie pubbliche e private è previsto l’obbligo di copertura assicurativa, la copertura si estende anche ai danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture. Per garantire efficacia all’eventuale azione di rivalsa ogni sanitario che operi a qualunque titolo in strutture sanitarie deve provvedere alla stipula, con oneri a proprio carico, di un’adeguata polizza di assicurazione per colpa grave.

Un apposito decretomediazione-obbligatoria-640x342 ministeriale, da emanare entro 120 giorni dall’entrata in vigore della legge dovrà fissare i requisiti minimi di garanzia delle polizze assicurative. Tale decreto ministeriale, rilevante anche per l’azione diretta, sarà un punto fondamentale della riforma, che per ora prevede sì un obbligo di assicurarsi, ma non di assicurare. Al momento è alquanto difficile, infatti, trovare sul mercato polizze che copriranno ogni tipo di rischio. La garanzia assicurativa dovrà prevedere l’operatività temporale estesa anche agli eventi accaduti nei 10 anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo (cd. polizza claims made), purché denunciati all’assicuratore durante la vigenza temporale della polizza.

Rilevante novità è poi l’introduzione dell’azione diretta del soggetto danneggiato nei confronti dell’impresa assicuratrice. A tal fine è previsto il litisconsorzio necessario tra la struttura ospedaliera e l’assicurazione.

La struttura sanitaria risponderà per responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e 1228 c.c., con termine di prescrizione decennale. Graverà, inoltre, in capo alla struttura stessa l’onere della prova per liberarsi dalla responsabilità (per il paziente sarà sufficiente allegare il fatto di essere stato in cura presso la struttura ed il danno subito). I singoli operatori sanitari risponderanno invece per responsabilità extracontrattuale ex 2043 c.c., con termine di prescrizione di cinque anni e, soprattutto, onere della prova del danno e del nesso di causalità tra condotta dell’operatore e danno stesso in capo al paziente.

In campo penale è introdotto il nuovo art. 590-sexies c.p. “Responsabilità colposa per morte o lesioni in ambito sanitario”. I singoli operatori sanitari non risponderanno penalmente, per i casi di imperizia, qualora si siano attenuti alle cd. linee guida, purché adeguate alle specificità del caso concreto (recependo così l’orientamento giurisprudenziale successivo al decreto Balduzzi). Viene invece abrogato l’art. 3 della legge Balduzzi, che prevedeva in generale la non punibilità per colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria. Un altro possibile profilo di criticità della legge risiede nell’ancora eccessivo rinvio alle linee guida, che non esistono per tutti i tipi di interventi sanitari e, soprattutto, spesso non sono omogenee tra loro.

Condominio: la Cassazione fa chiarezza sulla responsabilità dell’amministratore per lavori urgenti non deliberati dall’assemblea

La Cassazione, con la recentissima Sentenza n. 2807 del 2.02.2017, si è occupata della delicata questione relativa alla responsabilità dell’amministratore di Condominio per lavori straordinari, fatti eseguire in mancanza di previa deliberazione assembleare.

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Nel caso di specie, l’amministratore aveva commissionato ad un’impresa dei lavori straordinari, in assenza di deliberazione condominiale o di successiva convalida. Il condominio si era pertanto rifiutato di corrispondere la cifra richiesta dall’impresa, chiedendo che fosse l’amministratore a pagare i lavori. Soccombente in appello, l’amministratore ricorreva in Cassazione.

La suprema Corte – nella propria sentenza – ha giustamente sottolineato che l’amministratore di Condominio è tenuto ad agire tempestivamente quando ravvisi la necessità di effettuare lavori al fine di evitare danni a cose e/o persone.

Ad assumere rilevanza – nell’argomentazione della Corte – è dunque il requisito dell’urgenza.

Ne discende, di conseguenza, che “in materia di lavori di straordinaria amministrazione disposti dall’amministratore di condominio in assenza di previa delibera assembleare non è configurabile alcun diritto di rivalsa o di regresso del condominio, atteso che i rispettivi poteri dell’amministratore e dell’assemblea sono delineati con precisione dalle disposizioni del codice civile (artt. 1130 e 1135) che limitano le attribuzioni dell’amministratore all’ordinaria amministrazione e riservano all’assemblea dei condomini le decisioni in materia di amministrazione straordinaria, con la sola eccezione dei lavori di carattere urgente“.

Si comprende così che, quando l’amministratore, avvalendosi dei poteri di cui all’art. 1135 c. 2 c.c. abbia assunto l’iniziativa di compiere opere di manutenzione straordinaria caratterizzate dall’urgenza, il Condominio deve ritenersi validamente rappresentato e l’obbligazione – assunta dall’amministratore – deve ritenersi direttamente riferibile al Condominio.